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La mostra delle mostre d’arte nel mondo

È il 1970 e un giovane critico newyorkese gira il mondo per raccogliere informazioni finalizzate all’organizzazione di una mostra capace di restituire un quadro esaustivo della situazione attuale e delle prospettive future in campo artistico. Il viaggio, giunto al termine, è raccontato attraverso la voce di un suo interlocutore milanese. Dal racconto/dialogo – costellato di riferimenti più o meno espliciti ad artisti, mostre e manifestazioni di vario genere – emergono alcuni tratti caratterizzanti del contesto di quegli anni: il rapido superamento del fenomeno minimalista; l’ascesa di nuove forme d’arte, tra le quali l’arte povera e l’arte concettuale; l’affermarsi di una certa tipologia di critico e di mostra come capaci di definire e/o lanciare un artista o un movimento artistico; l’inarrestabile mercificazione dell’arte. Dopo aver ascoltato l’elenco degli insoliti souvenir raccolti lungo il viaggio dal giovane critico, e attestato come ormai l’opera d’arte sembri essersi ridotta al “gesto dell’opera da fare”, l’interlocutore giunge alla conclusione che al giovane critico non rimane altra possibilità che quella di fare il “gesto della mostra d’arte da fare”, la mostra di “se stesso che aveva cercato, in giro per il mondo, di fare la mostra per gli anni Settanta”.

La mostra delle mostre d’arte nel mondo

 

[Francesco Leonetti, Arnaldo Pomodoro]

pubblicato in: «Che fare», n. 6/7, primavera 1970, pp. 269-272

 

C’è un giovane critico d’arte, statunitense, curatore del Museo più importante del mondo, che sta girando dovunque, per studiare la situazione di lavoro dei nuovi artisti, per trovare opere, per organizzare una mostra della nuova ricerca di stile, appena è nata o nascerà, in qualunque parte del mondo. Mi ha raccontato cose terrificanti degli artisti, e anzitutto dei musei d’arte.

 

A Berna nella primavera del ‘69, nella Kunsthalle, per la mostra internazionale finanziata dalla Philip Morris delle sigarette, si sono visti mucchi di stracci di Robert Morris (due anni fa giovane maestro delle «primary structures» di geometrica immensità), lenzuoli alla finestre, laminette di piombo, fotografie di famiglia, pavimenti smossi. I materiali del movimento che in Italia è detto ora «arte povera». A causa di questa mostra, per disdegno, cinque o seicento dei soci della Kunsthalle, per lo più piccoli finanziatori, si sono ritirati con le loro quote e col loro rispetto per l’arte di una volta; in conseguenza il direttore del museo, che già si era strappato i capelli per combinare qualcosa di nuovo, ora si deve dimettere.

 

Negli Stati Uniti si leggono proteste sui giornali (anche là, come in Svizzera e altri paesi, i musei sono organizzatori di mostre d’arte nuova, senza interessi – almeno diretti – di mercato; e dispongono di somme enormi). Si leggono proteste di lettori perché nei musei non si vede più niente d’interessante; si accusano i musei di diventare mausolei; donne si spogliano nel giardino del museo accostandosi nude alle grandi opere di Moore o di Giacometti (non si sa bene se è per dimostrare che le grandi modelle ci sono o se è per dichiarare che si potrebbero acquistare loro).

 

Il mio amico, che ho incontrato in corso di Porta Romana a Milano, subito abbracciandoci con molte effusioni, è il «teorico» che ha fatto a New York nel 1966 la mostra «Primary Structures» (di cui abbiamo parlato per primi in Italia, in «Che fare» n. 2, novembre 1967, mentre altri resoconti nelle gazzette e anche in «Marcatrè» inorridivano). Una mostra tanto importante, lanciando Tony Smith e una scuola di giovani, che da quel momento e da quelle fotografie è venuta la conseguenza che pressoché tutti gli artisti del mondo – e chi segue l’arte sa che non esagero – o si sono messi a far cose simili o si sono improvvisamente sentiti in crisi. Il mio amico dice che quello stile non ha potuto durare che un anno, in Stati Uniti, e tuttavia ha avuto per tutti l’effetto che tutti si sono «ripuliti» e si sono sentiti obbligati ad essere chiari… Si badi bene che egli ha una qualità singolarissima: quella di precisare i nuovi fatti artistici non in sede critica, ma con l’organizzare una mostra: e dunque facendo a sua volta attività artistica. E nel più importante Museo d’arte del mondo, come uno dei sei curatori di esso, e come quello di cui solo ci si può fidare, dopo le «primary structures» da lui definite così, per imporgli di girare il mondo e trovare qualche altra cosa a tutti i costi (pena la carriera).

 

Mi ha cominciato a indicare il suo itinerario, finora: Londra, Bruxelles, Anversa, Amsterdam, Berna, Düsseldorf, Norimberga, Stoccolma, Parigi, Vancouver, S. Paolo, Milano, Roma, Rio, Caracas… i nomi che gli venivano in mente, nomi di città, ambienti, artisti di cui si erano notati i cataloghi, studi introvabili e donne bellissime. Il fatto è che oggi manca un sicuro centro artistico, dove si pescano tutti, andando a bere la sera in un locale e occhieggiando gli avventori che pagano con quadri… oggi ci sono ovunque artisti informati, che solo di un’ora o mezzora sono più avanti o indietro di altri, almeno perché «tutti ricevono ogni settimana Time e Newsweek» (non si tratta più di ricevere «Art international»).

 

Il mio amico K. in principio discute sempre di arte come una volta, rintracciando i motivi di stile e la serietà artistica, in tutto; per esempio, osserva che dopo la mostra delle «primary structures» c’è stata

una grande mostra di Pollock, ed è forse per questo che si è ricominciato con una specie d’«informale», invece che avere una durata stilistica con le grandi dimensioni lineari… Ma dopo un poco K. ammette con me che l’arte è condizionata, e anzi oggi è «merce». Il consumo delle forme artistiche è diventato rapidissimo; e anche se la galleria, il mercato, vuole la continuazione di uno stile, è l’artista che cambia: perché, in una lotta sorda, egli vorrebbe esprimere tutto l’esprimibile e nuovo, e la spirale produttivistica è estenuante, non gli dà scampo, lo brucia subito e lo risospinge nell’inquietudine. Si è giunti al punto che una formazione di stile come le «primary structures», capace in se stessa di operare per lungo tempo, finisce in un anno e mentre tutti la copiano già. Forse è stato questo l’ultimo stile.

 

Oppure si tenta e ritenta la ripetizione «new» di forme d’avanguardia: le quali una volta erano un linguaggio d’opposizione alla società, con un intento eversivo o utopistico, e ora sono pubblicità della società che se ne serve.

 

Si è arrivati così a fare l’opera come gesto dell’opera da fare: alcuni buchi nel deserto e la vendita delle fotografie dei buchi nel deserto, un filo da un muro all’altro, il vomito, l’onda che passa, un bel paesaggio in cui si cammina, il periodo stesso di ritiro in una galleria per fare l’opera, ecc. ecc. Di rado c’è davvero una trovata nuova come quella di Bai che a Como ha dipinto con rulli la bandiera tricolore sul pavimento della piazza, invitando poi tutti imbarazzati a cammmarci sopra (non so se è stato proprio così, io non c’ero).

 

Il tentativo di opposizione alla società, in tutto questo, diviene: un tentativo di ironia più ironica ancora che la trasformazione dell’arte in merce. O la negazione. O, da un poco, l’invito a ritrovare la manualità: dipingendo a mano accuratamente il ritratto di Lenin… Il suicidio è completamente superato; viene retrodatato di vent’anni come modo di avere scoperto come stanno le cose.

 

Naturalmente gli artisti sono vendutissimi e capaci di tutto, eccetto pochi. Quando si veniva a sapere il programma di viaggio del mio amico K egli era subito corteggiato «in mille modi». Chi voleva firmare lui stesso K perché nella mostra si mostrasse lui come opera del tale; chi offrì un libro di Klee; un tale gli diede come opera propria il proprio pennello da barba.

 

Immaginiamo dunque l’imbarazzo, la difficoltà, la contraddizione in cui K viene a trovarsi per risolvere il suo caso di lavoro artistico. Tutto è tanto instabile nelle forme d’arte, che non si può essere mai sicuri che chi le fa sia davvero un artista con un avvenire! Tutti i musei si sono tanto lasciati andare, esponendo le mode invece che gli artisti grandi come Fontana, che oggi si deve azzardare terribilmente! E anche quando si decide di azzardare su di uno, come si possono esporre le sue opere che sono del tipo già descritto? K sorrideva, nel nostro colloquio, mostrandomi una sua borsa d’ingegnere, come se avesse lì dentro le opere e la soluzione.

 

Siccome è riservatissimo, sulle sue scelte che saranno probabilmente decisive per l’arte europea dei prossimi anni, non sono riuscito a sapere altro che – forse – esporrà i film degli artisti; ce ne sono molti interessanti, mi ha detto; io credevo volesse dire che avrebbe esposto le «pizze» dei film, in mucchi per terra, e restavo incredulo tuttavia, perché agitava ancora la borsa, troppo piccola per contenere le «pizze»… Invece li proietterà semplicemente.

 

Ho poi sentite varie voci negli ambienti artistici; avrebbe esposto i sassi lanciati in dimostrazioni studentesche; o una carta geografica. Ma ciò mi sembrava troppo facile per un uomo sottile come K, finissimo nel capire gli stili appena nascono e nel fare una mostra di essi, sicuro nel teorizzare col semplice atto di presentazione ciò che nel mondo c’è di nuovo nell’arte.

 

Lo rincontro giorni dopo, mentre tutti impazzivano di curiosità, e gli dico ridendo: «Ma i sassi non ci stavano nella tua borsa, non potevano starci». Beh, K sorride e mi comincia a dire che cosa ci sta nella sua borsa:

– Tutti i biglietti d’aereo,

– un pacchetto vuoto di sigarette Roth-Handle (Mano rossa), di tabacco nero francese, vendute in Germania occidentale,

– la corrispondenza,

– cartoline di tutti i posti in cui è stato,

– spiccioli di carta di ogni paese, che restano sempre dopo un viaggio,

– stemmi di città dell’Europa,

– cataloghi,

– la fotografia dell’astronauta in cui l’altro astronauta e il paesaggio sono riflessi negli occhiali,

– qualche giornale pornografico svedese,

– il Papa nell’Uganda,

– qualche dolce buono di qualche paese,

– pillole medicinali, che in inglese sono sempre «droghe»,

– conti di ristoranti,

– indirizzi,

– anelli stemmati di persone dell’aristocrazia di cui si è innamorato durante il viaggio,

– la collezione di pietre rare di Horace de la Soleiette, cane,

– cartoline, cataloghi,

– belle persone non ancora arrestate dalla polizia in Piazza del Duomo,

– bar,

– un altro curatore d’arte di Berkeley incontrato a Milano.

 

Ho capito, così, che, se gli fosse riuscito, voleva imporre a New York la verità sull’arte: mettendosi sullo stesso piano dell’arte contemporanea e della sua impossibilità e della sua ironia: facendo il gesto della mostra d’arte da fare: facendo la mostra di se stesso che aveva cercato, in giro per il mondo, di fare la mostra per gli anni Settanta.

CREDITS

Questo racconto, pubblicato senza indicazione d’autore sulla rivista d’avanguardia «Che fare» (n. 6/7, primavera 1970, pp. 269-272), spetta alla collaborazione tra Francesco Leonetti e Arnaldo Pomodoro – fondatori e redattori di «Che fare» – in dialogo con Kynaston McShine, il giovane critico d’arte indicato come “K” nel testo. Il racconto è stato “riscoperto” e attribuito ai due autori durante la preparazione della mostra La negazione della forma. Arnaldo Pomodoro tra minimalismo e controcultura (Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano, 12 marzo – 28 maggio 2023). Il tema d’ispirazione del racconto è la ricerca effettivamente condotta da McShine al fine di stilare un «international report on recent activity of young artists», del quale avrebbe dato conto, di lì a qualche mese, con la mostra Information (MoMA, New York, 2 luglio – 20 settembre 1970), una delle prime e più importanti occasioni espositive a mettere a fuoco il fenomeno, allora emergente, dell’arte concettuale. Mettendo in scena un resoconto di viaggio ironico e scherzoso, Leonetti e Pomodoro offrono al lettore la loro posizione, a tratti fortemente critica, sulle recenti evoluzioni del panorama artistico internazionale. Lamentando la rapidità con la quale la “geometrica immensità” del fenomeno minimalista sembrava essere stata archiviata, i due autori contestano la “spirale produttivistica” che affligge sempre più il mondo dell’arte, legandola alla vacuità di esperienze che riducono l’arte d’avanguardia – un tempo “linguaggio d’opposizione alla società, con un intento eversivo o utopistico” – a una forma di “pubblicità della società che se ne serve”.

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